Sergio
Marchionne, protagonista della strategia di sviluppo dell'azienda negli ultimi
anni, ha sempre sostenuto che quella tra Chrysler e FIAT è una alleanza di
tecnologie e mercati complementari: da una parte le auto piccole, i motori a
basso consumo, una storica presenza in Europa ed America Latina; dall'altra,
grandi berline e fuoristrada che sono apprezzati non solo nel tradizionale
mercato nordamericano, ma anche in Cina. Insomma l'obiettivo non sarebbe di
abbandonare gli stabilimenti italiani, malgrado le numerose polemiche con
politica e sindacati, bensì fare di FIAT un colosso internazionale che possa
produrre ogni tipo di auto e venderlo ovunque. Non è una idea originale: il
maestro di questa strategia è Carlos Gosn, presidente di Nissan e poi di
Renault, che è riuscito ad integrare alla perfezione queste due aziende così
lontane per goegrafia e mentalità. Renault e Nissan hanno messo insieme la loro
forza tecnologica e commerciale e riescono, insieme, a fronteggiare i più
grandi colossi dell'auto, come GM, Toyota e Volkswagen.
In realtà,
Marchionne vuole realizzare qualcosa di ancora più complesso, perché
all'alleanza industriale vuole aggiungere quella finanziaria. La ragione di
questo è che la borsa italiana è troppo piccola per consentire a FIAT di
raccogliere tutti i capitali necessari al suo sviluppo. Quindi, mentre Renault
è rimasta a Parigi e Nissan a Tokyo, FIAT medita di trasferire la sede a
Detroit e la cassa a Wall Street. I manager FIAT hanno già iniziato a
considerare l'Italia un mercato come tanti e avere atteggiamenti
"politicamente scorretti" come correre a costruire una nuova fabbrica
in Serbia mentre si chiude, a Termini Imerese, il perno intorno a cui ruotava
uno dei pochi nuclei industriali della Sicilia. Una politica industriale
spregiudicata, funzionale per l'azienda ma indifferente rispetto all'Italia.
Non a caso FIAT è anche uscita da Confindustria. Certo, l'Italia resterà
sicuramente il punto di riferimento di FIAT per l'Europa, resterà il paese dove
si produrrà la maggior parte dei modelli. Contestualmente ai 4 miliardi per le
azioni della società americana, altri 3 sono stati stanziati per gli
stabilimenti di Mirafiori e Cassino, da tempo in stato di incertezza. Queste due
fabbriche dovranno produrre auto medio-grandi, per una fascia di mercato che
FIAT ha progressivamente abbandonato e in cui adesso sembra voler tornare con
convinzione. Sembra davvero possibile un rilancio del glorioso marchio Alfa
Romeo, peraltro anticipato dalla sportivissima 4C. Un modello a tiratura
limitata, ma volutamente estremo per stupire (sui circuiti internazionali
strappa tempi all'altezza di supercar ben più potenti e costose) e mostrare che
Alfa si pone su una strada di eccellenza tecnologica. Quello che mancava era
una tecnologia adeguatamente collaudata ed economica per la trazione posteriore
(che FIAT ha abbandonato da decenni), per i cambi automatici (poco comuni in
Europa) e una rete di concessionari tale da assicurare adeguati numeri di vendita.
Adesso il 100% di questi elementi è a disposizione, e si allontanano le voci
che volevano una vendita del marchio a Volkswagen. Resta nella palude invece un
altro marchio storico, Lancia, per il quale non sembrano esserci idee o
prospettive. L'uso del marchio su modelli americani d'importazione (Flavia,
Thema e Voyager) si è rivelato un fiasco e alla fine Lancia resta dipendente da
un solo modello, la Ypsilon, venduta quasi solo in Italia e Francia. C'è il
forte rischio che il marchio venga abbandonato, per il sommo dispiacere dei
"lancisti". Continuando a parlare di stabilimenti, quelli del sud
(Pomigliano e Melfi) resteranno focalizzati sulle auto piccole, l'inossidabile
Panda (di cui forse sarà prodotta una versione ingrandita) e la nuova, attesa coppia
di piccole fuoristrada: quella marchiata Jeep sarà presentata a marzo, quella a
marchio FIAT qualche mese dopo e sarà l'ennesimo elemento della famiglia 500.
Insomma sembra che, a parte l'ormai chiuso Termini Imerese, tutti gli
stabilimenti FIAT abbiano un futuro.
I risultati
parziali della strategia Marchionne sono contraddittori. In Nordamerica le cose
vanno bene, sia perché il mercato si è in generale ripreso, sia perché va forte
il marchio Jeep, quello che porteranno almeno due dei modelli da produrre in
Italia. In Europa invece va male. FIAT, riorganizzandosi, ha abbandonato interi
segmenti di mercato, come quello delle berline a 3 volumi e delle station
wagon. Non ha quindi cercato di reagire al calo delle vendite rinnovando i
propri prodotti, come hanno fatto la maggior parte degli altri costruttori. Una
strategia sbagliata secondo alcuni, perché ha fatto sparire quote di mercato
che chissà se sarà mai possibile recuperare. Una strategia esatta secondo
altri, che hanno osservato come PSA (Peugeot e Citroen), abbia inondato il
mercato di modelli nuovi belli, moderni e funzionali, ma non abbia ottenuto
altro che debiti talmente elevati da rischiare il fallimento. E PSA è, per il
tipo di auto che produce e per i mercati che serve, il gruppo automobilistico
più simile a FIAT. Tant'è che il salvataggio del gruppo francese è avvenuto
grazie agli americani di General Motors, gli stessi che in passato erano
entrati nel capitale di FIAT. Cruciali saranno i risultati che otterranno i
nuovi modelli della famiglia Alfa. I manager FIAT ostentano ottimismo, perché
hanno deciso di seguire le stesse linee guida che hanno consentito di
rilanciare, con risultati ottimi, il marchio Maserati.
Per tornare
alla domanda del titolo, cosa possiamo aspettarci dunque da FIAT? Dal punto di
vista societario e legale, la paura nell'aria è che il prossimo tassello della
strategia sia trasferire il vertice del gruppo al di là dell'oceano. Anche se
l'occupazione restasse intatta, per la continuità della produzione e per il mantenimento
di Torino come sede per l'Europa, inevitabilmente sarebbe un colpo. Un altro
triste regalo del processo economico chiamato globalizzazione. Dopo le
innumerevoli aziende industriali, commerciali e di servizi che sono già
diventate "straniere" perché acquistate da imprese o imprenditori non
italiani, una azienda storica che per propria scelta si trasferisce all'estero,
non per produrre a basso costo, ma per lavorare in un sistema paese che
consente orizzonti più ampi.
Alessio
Mammarella
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