Fuori Enrico Letta e dentro Matteo Renzi.
Il PD è sicuramente un partito che ci ha sempre stupito,
riuscendo sempre a prendere la decisione sbagliata riuscendo a non ascoltare
mai la propria base. Solo nell’ultimo anno abbiamo visto Bersani dilapidare un
vantaggio che sembrava enorme e non vincere le elezioni dello scorso febbraio, impallinare
prima Marini e poi Prodi per l’elezione del Presidente della Repubblica per poi
chiedere a Napolitano di accettare un secondo mandato (certificando, di fatto,
l’incapacità di esprimere una propria candidatura), abbiamo visto un Presidente
del Consiglio del PD accettare le dimissioni di un ministro dello stesso
partito per poi usare un peso ed una misura diversa difendendo prima Alfano e
poi la Cancellieri dal voto di sfiducia in nome della governabilità.
Con queste premesse, e abbiamo parlato solo degli ultimi 12
mesi, la decisione del neo segretario del PD di sfiduciare Enrico Letta
potrebbe essere quella sbagliata.
Renzi ha assunto la direzione del partito Democratico dopo
aver vinto con un ampio margine le primarie lo scorso 8 dicembre e subito ha
dato l’impressione di voler accelerare su temi al centro del dibattito
politico: la riforma del mercato del lavoro, la legge elettorale, tagli alla
politica.
La scelta di Renzi di accelerare la fine del governo Letta
può essere letta in molti modi ma a mio avviso è dettata dalla paura di una possibile
sconfitta alle prossime elezioni europee del Partito Democratico a vantaggio
delle formazioni politiche che si richiamano all’antieuropeismo come il
MoVimento 5 Stelle e Forza Italia. Una sconfitta che avrebbe portato da una
parte ad una crisi di governo con il primo partito dell’attuale maggioranza in
seria difficoltà, ma anche ad un ridimensionamento del segretario sconfitto al
primo banco di prova. Renzi quindi aveva solo due possibilità: quella di
provare ad andare alle elezioni anticipate (ma senza una nuova legge elettorale
avremmo comunque avuto un problema di governabilità e quindi la certezza di un
altro governo di larghe intese, senza calcolare che a giugno si sarebbe apeto
il semestre italiano di presidenza europea nella più totale incertezza politica)
oppure forzare la mano all’esecutivo assumendo l’incarico di premier e provando
a fare lui le riforme di cui il paese a bisogno. La seconda strada era quella
più percorribile.
Ma se la strada intrapresa potrebbe sembrare quella più
opportuna Renzi si ritrova a fare i conti con i partiti che dovranno sostenere
il suo esecutivo.
E forse l’errore di Renzi potrebbe essere questo. Infatti avrebbe
dovuto avere già in tasca i nomi del suo governo magari mantenendo la promessa
fatta poco più di un anno fa durante le primarie perse contro Bersani dove
aveva dichiarato che il suo governo avrebbe avuto solo 10 ministri, magari
tecnici e politici a lui vicini che avrebbero lavorato in totale sinergia (una
specie di segreteria del PD spostata a Palazzo Chigi), e doveva avere già in
tasca un programma dettagliato da presentare alle camere con tempi, modalità ed
eventuali coperture di spesa. Invece, almeno secondo alcune indiscrezioni,
mentre la crisi politica è stata molto rapida, si pensa che passeranno alcuni giorni
prima del giuramento e della fiducia alle camere.
L’idea poi di dover concertare il governo con gli eventuali
alleati sembra non dare quella discontinuità che sembrava necessaria solo poche
settimane fa. Alla fine avremmo la stessa maggioranza che sosteneva l’esecutivo
Letta, con tutti i limiti incontrati proprio dall’ex premier.
Il paese ha bisogno di riforme concrete e se il neo premier
riuscirà a farle sarà un bene per tutti, se lui fallirà sarà una sconfitta per
l’Italia.
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