Nella religione ebraica il Bar Mitzvah segna il passaggio alla maggiore età. Letteralmente vuol dire figlio del comandamento e per i ragazzi si celebra al compimento dei tredici anni. Per le ragazze accade nel dodicesimo anno di età, ma nel loro caso parliamo di Bat Mitzvah.
Giuseppe di Porto avrebbe dovuto
festeggiare il suo Bar Mitzvah nel 1936, allietato dalla presenza dei suoi
genitori, dagli amici e dai parenti. Al tempo non avrebbe potuto immaginare
cosa sarebbe accaduto. Questa grande festa si è svolta, sì, nella Grande
Sinagoga di Roma, ma il 26 gennaio del 2009, alla presenza del Rabbino Capo Di
Segni e di larga parte della Comunità ebraica di Roma. Nel mezzo c’è tutta la
storia di Giuseppe. Un ragazzo, un giovane uomo, che suo malgrado si è visto
catapultato negli orrori della Storia, facendo esperienza diretta del razzismo,
dell’antisemitismo e di Auschwitz. Di tutti coloro che sono sopravvissuti alle
persecuzioni naziste e all’Olocausto oggi ne rimangono in vita molto pochi, lui
è uno di loro.
La sua storia è raccolta nel Quaderno
n°6 della Provincia di Roma: “Giuseppe Di Porto. La rivincita del bene – Una
testimonianza inedita di un sopravvissuto ad Auschwitz”. Nell’incipit afferma:
“Spero, con questo mio racconto di aiutare i lettori più giovani a capire
quanto possa essere sottile e rischioso il passaggio tra il bene e il male, tra
la razionalità e la pazzia”. Non è una storia già sentita? Ebbene, Giuseppe non
è un letterato. A causa delle condizioni familiari e della guerra non è
arrivato oltre la quinta elementare ed è consapevole di avere il dovere di
raccontare. È una persona semplice, che sviscera i fatti con l’umiltà di chi si
vuole far comprendere, soprattutto dai più giovani, soprattutto ora che molti
testimoni non ci sono più. È una storia che deve essere raccontata!
A Roma Giuseppe viveva con i genitori in
Via della Reginella, una traversa di Via del Portico D’Ottavia, strada meglio
conosciuta oggi come il “Vecchio Ghetto”. Come tanti uomini del suo tempo, il
papà aveva combattuto per l’Italia durante le Grande Guerra. Era “artigliere”
col grado di Caporale. Dopo la guerra aveva ricevuto la licenza di venditore
ambulante; vendeva cravatte, cinte e bretelle. Dall’autunno del 1938, con
l’entrata in vigore delle Leggi Razziali, gli ebrei furono “considerati come
cittadini stranieri, indesiderati e mal visti, costretti a subire innumerevoli
restrizioni e persecuzioni”, ricorda nel libro. Fu tra i 200 ebrei romani
“prescelti” nel 1942 per andare a lavorare lungo l’argine del fiume Tevere,
sotto ponte Vittorio Emanuele. Vessazioni, umiliazioni e lavori forzati. Questo
accadde a Roma e in tutta l’Italia fascista. Nulla da invidiare alle leggi
emanate dal Terzo Reich e ai trattamenti riservati agli ebrei nella Germania
nazista. Cosa che, invece, molti revisionisti e autorevoli rappresentanti di
larghe fasce della destra in Italia vorrebbero sminuire, a volte sino al limite
indegno del falso storico.
Arrivò il 1943 e con esso “il giorno del
ricatto”. La sera del 26 settembre venne richiesta alla Comunità ebraica la
consegna di cinquanta chili d’oro che avrebbero dovuto raccogliere entro
trentasei ore, pena la deportazione di 200 ebrei romani. Come tutti sappiamo
questo non valse a garantire l’incolumità degli ebrei romani; si arrivò al 16
ottobre, giorno della deportazione di 2091 ebrei della capitale verso lo
sterminio. Quel giorno Giuseppe non era in città, stava cercando lavoro a
Genova. Nonostante ciò, fu comunque arrestato e il 3 novembre di quello stesso
anno fu inviato ad Auschwitz. Di Porto racconta la propria esperienza del Lager
ripercorrendo parallelamente il vissuto ed i pensieri di quei giorni, sino alla
liberazione e al rientro in Patria. Durante tutto il racconto ha cercato di non
trasmettere odio e rancore nei confronti di chiunque “anche se l’uomo non può
considerarsi immune da atti che possono superare la bestialità”, ricorda lui
stesso.
Questa non è la storia di un grande
uomo, ma sicuramente la storia di un uomo che si è reso grande attraverso
l’opera di trascendenza dall’odio compiuta su sé stesso. Vorrei concludere con
le parole di Giuseppe Di Porto: “Il futuro della società è nelle nostre menti e
nei nostri cuori. Se sapremo privilegiare la comprensione e la disponibilità
verso chi è - per un qualsiasi motivo - differente da noi, avremmo vinto la
nostra battaglia contro il pregiudizio e l’odio”.
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