mercoledì 23 maggio 2012

Capaci, 20 anni dopo. Manca la verità, sopra ogni ragionevole dubbio

23 maggio 1992, ore 17 e 58.
23 maggio 2012.

Sono passati vent’anni da quel terribile giorno in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Dilaniati da 500 chili di tritolo posizionati allo svincolo di Capaci sulla A29, l’autostrada che congiunge Palermo dall’aeroporto di Punta Raisi.

In questi vent’anni si è scritto e detto molto. Altri magistrati e uomini dello Stato hanno perso la vita, primo tra tutti Paolo Borsellino, ucciso neanche due mesi dopo Falcone a Via d’Amelio.

Vent’anni in cui la Verità non è mai stata accertata sopra ogni ragionevole dubbio. Certo, per quelle stragi sono stati accusati e condannati uomini di Cosa Nostra come mandanti ed esecutori, ma mancano ancora tante pagine per spiegare quello che effettivamente è successo in quel lontano 1992.

Vent’anni in cui politici, faccendieri, pentiti, uomini di Cosa Nostra, uomini di Stato, hanno fatto intravedere una realtà che sembra agghiacciante.

Un recente libro, edito da Chiarelettere, con una prefazione importante: quella di Roberto Scarpinato, dal giugno 2010 Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Caltanissetta, e dall’88 magistrato della Procura della Repubblica di Palermo dove era entrato a far parte del pool anti-mafia, collaborando a stretto contatto con Falcone e Borsellino.
Scarpinbato ricorda i due giudici uccisi dalla Mafia utilizzando solo le loro parole. Parole di uomini preoccupati, alle volte impauriti, che analizzavano, vent’anni fa, la Mafia con le stesse parole che possiamo usare ancora oggi. Parole di due servitori di unoStato che sentivano non sempre presente.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono assassinati perché con il loro lavoro di integerrimi magistrati erano il simbolo di uno Stato che aveva sferrato un colpo mortale a cosa nostra, mandando in frantumi il mito della sua invincibilità.” Scrive Scarpinato nella sua lunga introduzione al libro. Tra le tante pagine del libro, una mi ha colpito in particolare:

“Credo che Cosa nostra si coinvolta in tutti gli tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbarco alleato in Sicilia durante la Seconda guerra mondiale e della nomina di sindaci mafiosi dopo la Liberazione. Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non si vorrà far crede che alcuni gruppio politici non siano alleati a Cosa nostra- per un’evidente convergenza di interessi- nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi… accadde quindi che alcuni politici a un certo momento si trovino isolati nel loro stesso contesto. Essi allora diventano vulnerabili e si trasformano inconsapevolmente in vittime potenziali. Al di là delle specifiche cause della loro eliminazione, credo sia incontestabile che Mattarella, Reina, La Torre erano rimasti isolati a causa delle loro battaglie politiche in cui erano impegnati. Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne randa nemmeno conto.
Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”

Ricordare, ancora oggi, dopo vent’anni, è un dovere. Chiedere la Verità un diritto.

di Gavino Pala